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Testimonianze del mondo iberico nelle collezioni degli Uffizi
Traces of the Iberian Culture in the Uffizi Collection

Hipogrifo. Revista de literatura y cultura del Siglo de Oro, no. Esp.1, 2018

Instituto de Estudios Auriseculares

Alberica Barbolani da Montauto

Gallerie degli Uffizi, Italia



Il convegno El poder de la economía: la imagen de los mercaderes y el comercio en el mundo hispanico de los siglos XVI y XVII si è svolto nella cornice dell’antica chiesa di S. Pier Scheraggio all’interno della Galleria degli Uffizi a Firenze. Un luogo prestigioso, certo, famoso in tutto il mondo per la ricchezza delle sue collezioni artis­tiche, ma allo stesso tempo testimonianza di una cultura che trae la sua linfa vitale dall’apertura verso l’esterno, dai contatti con altri popoli, altre usanze, altre tradizioni.

Mi è sembrato dunque significativo ripercorrere nella nostra visita le testimo­nianze dei contatti col mondo iberico e col mondo dei mercanti riscontrabili tangi­bilmente nelle opere presenti in Galleria, in modo che questa non rimanesse sem­plicemente una cornice per i lavori del convegno, ma si facesse, per così dire, parte attiva, testimonianza dello spessore degli scambi commerciali e culturali tra Firen­ze e il mondo iberico nei primi secoli dell’era moderna.

Gli Uffizi vengono costruiti tra il 1561 e il 1581 su progetto di Giorgio Vasari per volontà del duca Cosimo de’ Medici, come nuova sede per le magistrature del Ducato di Firenze: fin dall’inizio, però, l’ultimo piano fu destinato all’uso privato del duca, in particolare come luogo privilegiato per ospitare le sue collezioni d’arte. Gran parte di ciò che oggigiorno si trova all’interno del museo è frutto dell’amore per l’arte che caratterizza questa famiglia di mercanti e banchieri divenuti prima signori e poi duchi della città, nonostante il fatto che l’allestimento voluto fin dal XVIII secolo per volontà di Pietro Leopoldo di Asburgo-Lorena abbia un intento di­dattico-cronologico e non rispecchi le soluzioni espositive scelte dai vari membri della famiglia Medici. Un’eccezione è senza dubbio il primo corridoio, il cui aspetto attuale rispecchia fedelmente quello della fine del XVI secolo indagato e ricostruito filologicamente a partire dagli ultimi decenni del ‘900. In particolare, le due serie di dipinti che si snodano per tutta la lunghezza del corridoio, continuando anche nelle ali successive, sono per noi della massima importanza non tanto per la loro qualità quanto per la capacità di restituirci la visione del mondo nel pensiero di Cosimo I e dei suoi figli Francesco e Ferdinando.

La collezione di ritratti collocata al di sopra delle finestre che guardano verso il piazzale e delle porte che immettono nelle sale è detta collezione «gioviana».

Essa prende il nome da Paolo Giovio 1 , celebre medico, letterato e storico del XVI secolo, originario di Como ma legato soprattutto alla Roma di Leone X e di Clemente VII e alla Firenze di Cosimo I de’ Medici: egli fece costruire sul Lago di Como una villa, da lui denominata Museo, dove collocò una enorme collezione, oggi perduta, di ri­tratti; essi dovevano completare i suoi scritti dedicati alle biografie di uomini famosi.

Una costante di tutta la produzione storica di Paolo Giovio è il suo interesse per i grandi personaggi protagonisti del suo tempo; ne redige le biografie, spesso con un’accuratezza e un’imparzialità di giudizio stupefacenti e scrive anche due libri di elogi, brevi descrizioni celebrative che combinano fonti storiche e tradizioni orali. Il desiderio dello storico è di sottrarre tali personaggi all’oblio del tempo, nel ricordo perenne: questo si può ottenere attraverso la scrittura, soprattutto se essa è co­rredata dalle verae imagines dei personaggi stessi.

Fino dall’epoca del suo primo soggiorno fiorentino al seguito del cardinale Giulio de’ Medici, nel 1520-21, Giovio comincia a mettere insieme una collezione di ritratti di uomini illustri: in una lettera del 28 agosto 1521 a Mario Equicola, segretario del Marchese di Mantova, spiega di essere stato colto dal desiderio di ornare una stanza della sua dimora fiorentina con le effigi di grandi uomini che avrebbero dovuto costituire un exemplum per gli osservatori ed elenca quelli che ha già acquistato 2 . Da allora la sua collezione continua ad accrescersi, fino a raggiungere il numero di oltre 400 immagini alla data della morte del letterato.


Imagen 1
Anonimo, Veduta del Musaeum, inizio XVII sec., olio su tela, cm.71 x 85, Como, Musei Civici, Pinacoteca, inv.n.596

L’esigenza di trovare una dimora a questa preziosa collezione, insieme al desiderio accarezzato fin da giovane di edificare in patria, nei luoghi cari anche al suo illustre concittadino Plinio il Giovane, una villa sul modello di quelle romane, spingo­no Giovio a progettare e portare a termine il suo Musaeum.

La costruzione comincia nel 1537 e termina il 10 marzo 1543, come si evince da una lettera a Cosimo I. Nella costruzione della villa si rispecchiano gli interessi ar­chitettonici di Giovio, il suo amore per l’antichità classica, ma soprattutto l’esigenza di dilatare gli spazi adibiti all’esposizione delle preziose effigi: non più uno studiolo rinascimentale concepito come rifugio nella vita contemplativa, ma un’intera villa nella quale le immagini degli antichi si manifestano quasi come persone vive con le quali intrattenersi in un dialogo muto ma ricco di stimoli 3 .

Fu Giovio stesso a suggerire a Cosimo I di inviare a Como un giovane «pittore­llo» a copiare i ritratti che in tanti ammiravano e desideravano invano acquistare: la scelta cadde su Cristofano dell’Altissimo 4 , pittore fiorentino, che dedicò a questa impresa praticamente tutta la vita riproducendo circa 282 dipinti a partire dal 1552. La raccolta proseguì anche dopo la scomparsa del letterato e del primo pittore per più di due secoli, fino al 1840, raggiungendo una consistenza di 480 ritratti.


Imagen 2.
Firenze, Uffizi, I corridoio, veduta generale

La lunga sequenza di volti che ci accompagna nel percorso del primo corridoio degli Uffizi ci offre quindi la splendida opportunità di gettare uno sguardo sulla visio­ne del mondo che Paolo Giovio per primo, il duca Cosimo e i suoi figli poi volevano trasmettere attraverso la selezione di personaggi famosi, di epoche e paesi diversi: dietro ad ognuno di essi si cela una storia, una cultura, un intreccio di relazioni che in qualche modo erano ritenuti significativi.

All’inizio del corridoio, tra i re e gli imperatori, spicca subito il volto di Carlo V: re di Aragona e di Castiglia dal 1516, poi Imperatore, fu un personaggio fondamentale per la famiglia de’ Medici. Fu infatti proprio grazie a lui che il duca Alessandro fu posto a capo del governo fiorentino dopo l’assedio del 1530 e il cugino Cosimo divenne duca in seguito alla sua morte violenta e inaspettata nel 1537. I primi anni del governo di Cosimo furono caratterizzati da un delicatissimo gioco di equilibrio tra l’ingombrante presenza delle truppe imperiali all’interno del ducato di Firenze, sul quale Carlo V esercitava un controllo ferreo, e la ricerca di un potere personale sempre più assoluto, che soltanto l’autorità imperiale poteva avallare 5 .


Imagen 3.
Cristofano dell’Altissimo, Carlo V, 1552 circa, olio su tavola, 59,5 x 44,5, Galleria degli Uffizi

La storia del ritratto posseduto da Paolo Giovio e copiato da Cristofano dell’Altissimo ci parla di altri personaggi, di altre relazioni, di altri intrecci politici e culturali: sarebbe stato infatti di mano di Tiziano e realizzato in occasione di uno dei due incontri avvenuti a Bologna tra Carlo V e il papa Clemente VII, anch’egli un Me­dici, nel 1530 e nel 1532: troviamo presenti diplomatici di varie nazionalità, pittori, ambasciatori. C’è Paolo Giovio stesso, che vede in Carlo V il baluardo della cristia­nità contro l’avanzata dell’impero ottomano di Solimano il Magnifico ed è venuto a offrirgli uno studio sul nemico da conoscere per combattere, il Commentario delle cose dei Turchi.

Accanto al ritratto di Carlo V, ecco quello di Filippo II, protagonista di uno degli episodi più significativi dell’ascesa politica di Cosimo de’ Medici: fu infatti colui che concesse lo stato nuovo di Siena in feudo al duca, dopo la vittoriosa guerra del 1554-55 che vide le truppe imperiali accanto al duca di Firenze contrapposte ai senesi e ai fuoriusciti fiorentini sostenuti dal re di Francia. In questo modo Cosimo divenne di fatto signore di tutta la Toscana.

Tra i papi spicca invece Alessandro VI, al secolo Rodrigo Borgia, sicuramente uno dei personaggi più discussi, insieme ai suoi figli, della storia e delle cronache dell’ultimo scorcio del XV secolo. Il ritratto degli Uffizi, probabilmente derivato dal perduto affresco del Pinturicchio realizzato per l’appartamento del papa in Vaticano e copiato in epoca antica da Pietro Facchetti, ci restituisce l’idea di un uomo pingue, ma di aspetto volitivo ed intelligente. Assai raffinati i toni del rosso dell’abito che ci restituiscono la finezza del velluto. Nei rapporti di Rodrigo Borgia con Firenze non si può non ricordare il ruolo che ebbe nella condanna a morte di fra’ Girolamo Savonarola, dopo che questi aveva realizzato a Firenze il sogno di una repubblica teocratica in seguito alla cacciata dei Medici e alla condanna all’esilio dei figli di Lorenzo il Magnifico nel 1494.


Imagen 4
Cristofano dell’Altissimo, Alessandro VI, 1552 ca, olio su tavo­la, 59,5 x 44,5, Galleria degli Uffizi

Ma veniamo adesso a un ritratto che spicca in mezzo agli altri e che racconta una storia straordinaria di contatti cercati, interrotti, ripresi, fortemente voluti tra mondi lontani e diversi, in cui una delle due parti è il Portogallo.

Il personaggio ritratto è un giovane di pelle scura, lineamenti fini, sguardo vivo ed intelligente, atteggiamento fiero e risoluto. Le labbra carnose sono incorniciate da una corta barba ben curata e un prezioso orecchino orna l’orecchio sinistro. Gli abiti che il giovane indossa sono di foggia occidentale, con un mantello verde che copre l’abito rosa impreziosito da raffinati ricami; sotto a questo si intravede anche una camicia bianca. Si tratta dell’imperatore cristiano di Etiopia, Lebna-Denghel, detto anche ‘Etana-Denghel, proclamato «re dei re» nel 1508 ad appena dodici anni. Come nome regale gli venne attribuito quello di Dawit, cioè Davide e la reggenza fu assunta da un consiglio che comprendeva anche una sua bisnonna acquisita, di nome Elena. Fu lei, di fatto tutrice del giovanissimo re, che nel 1509 inviò una lettera a D. Manuel, re del Portogallo, per proporgli un’alleanza contro l’Islam; l’Etiopia era infatti terra cristiana, rimasta di fatto completamente isolata a partire dal VII secolo a causa del dilagare dell’Islam. Per secoli l’Occidente si era quasi dimenticato di questo impero, avvolto dalle nebbie del mistero e delle leggende; anche l’ubicazione non era ben chiara, tanto che i pellegrini etiopi che gli altri cristiani trovavano a Gerusalemme venivano definiti «indiani». Tra le altre leggende, si attribuiva all’Etiopia anche un sovrano eccezionale per ricchezza e potenza, oltre che perfetto cristiano: il Prete Gianni, nome che poi fu spesso usato per indicare vari sovrani etiopi.

Nel corso del XV secolo le nebbie che circondavano queste terre cominciarono a diradarsi grazie alle ambascerie inviate dall’ imperatore Dawit I a Venezia nel 1402 e a Roma nel 1404 e alla piccola delegazione etiope presente al Concilio di Firenze nel 1440, oltre ai contatti di sovrani africani con Alfonso V di Aragona e ai viaggi dei pellegrini etiopi che cominciarono a spingersi a Roma, Venezia e fino a Santiago de Compostela. Anche le conoscenze geografiche su questo lontano paese migliora­rono e nel 1483 una missione francescana trascorse alcuni mesi in Etiopia, mentre poco dopo fu aperto a Roma un ospizio per i monaci etiopi, i quali contribuirono non poco al progresso degli studi sul loro paese.


Imagen 5.
Cristofano dell’Altissimo, Atanadidinghel, 1552 ca, olio su tela, 59,5 x 44,5, Galleria degli Uffizi

Tornando alla lettera inviata dalla reggente Elena, essa arrivò a destinazione solo 5 anni più tardi e destò grande interesse, tanto che fu subito organizzata una spe­dizione portoghese verso l’Etiopia; infatti l’espansione commerciale del Portogallo verso oriente era fortemente contrastata dalla potenza islamica e un’alleanza con un paese cristiano affacciato sul Mar Rosso avrebbe potuto risolvere il problema. La missione portoghese incontrò però varie difficoltà e fu soltanto nel 1520 che si realizzò lo sbarco in Etiopia: tra i membri della spedizione figuravano il pittore Laza­ro de Andrade e il cappellano Francisco Alvares.

Anche il papa Leone X era stato avvisato dei contatti intrapresi col «Prete Gian­ni» per arrivare a sconfiggere definitivamente il nemico musulmano e quindi le aspettative occidentali riguardo alla spedizione erano altissime: di fatto però si concluse assai poco e fu soltanto nel 1533 che Alvares, insieme ad un delegato etiope, poté incontrare il papa —ormai Clemente VII— e fare atto di obbedienza a nome di Dawit III, re di Etiopia. In questa occasione Alvares consegnò al papa due lettere scritte dal re ormai diversi anni prima e una piccola croce d’oro come regalo. Questo avvenimento, che ebbe luogo a Bologna in occasione del secondo incontro tra Clemente VII e Carlo V, colpì molto l’immaginazione dei presenti, e stimolò nuova attenzione verso l’Etiopia; del resto Alvares riportò anche un cor­poso trattato su tutti gli aspetti, anche istituzionali, del regno africano. Tra gli in­tervenuti all’incontro di Bologna figura anche Paolo Giovio, che ebbe l’incarico di tradurre dal portoghese le lettere di Dawit e il trattato di Alvares. Giovio non portò mai a termine la seconda traduzione, ma dedicò all’Etiopia alcune pagine del XVIII libro delle sue Historiae, dedicate in particolare alla storia contemporanea, oltre che il commento all’immagine di Dawit III negli Elogia dedicati ai personaggi del suo Museo.

Dallo storico comasco sappiamo che il re erroneamente detto Pretegian si chia­ma in realtà Davide, soprannominato Atanadidinghel, che vuol dire «incenso della Vergine»; ebbe una sola moglie, mentre normalmente i sovrani etiopi erano poli­gami, e quattro figli maschi; combatté tutta la vita contro i musulmani, dapprima riportando discreti successi, poi con difficoltà sempre crescenti, fino a morire nel 1540 all’età di soli 44 anni. Suo successore fu il secondo figlio, Galawdewos, detto Claudio, poiché il primogenito era morto in battaglia l’anno precedente.

Molti racconti riportati da Giovio sull’Etiopia sono ancora quelli leggendari, con particolari fiabeschi sull’estensione e le ricchezze delle terre dell’Impero, ma i par­ticolari sulla storia contemporanea sono sostanzialmente esatti: probabilmente le sue fonti furono direttamente i monaci etiopi che risiedevano allora a Roma e che lo storico poteva facilmente consultare 6 .

Veniamo ora al nostro ritratto: esso è citato dal Vasari tra quelli degli eroi nell’Elenco contenuto nella seconda edizione delle Vite del 1568. L’effige colpisce per la resa straordinaria dei tratti fisionomici del giovane imperatore, per i particolari raffinati come il brillare dell’orecchino colpito dalla luce e l’elegante damascatura della veste, per l’accostamento dei colori degli abiti che presentano diverse sfumature. La morbidezza delle pieghe del mantello, la gamma dei colori, la resa levigata della pelle scura ricordano la raffinata pittura del maestro di Cristofano, Agnolo Bronzino. Per quanto riguarda il prototipo che il nostro pittore avrebbe copiato a Como, sappiamo che Giovio cercava per la sua collezione soltanto effigi corris­pondenti al vero. Riguardo a quella di David Atanadi da lui posseduta, egli afferma che gli stessi monaci etiopi sostenevano che fosse il ritratto portato da Alvares e consegnato al papa insieme alla croce d’oro.

In effetti, al momento della spedizione di Alvares, c’erano due pittori veneziani che vivevano in Etiopia: Nicolò Brancaleon, che fu usato come interprete, e Gerola­mo Bicini, oltre al portoghese Lazaro de Andrade che faceva parte della missione e rimase poi in Etiopia. Uno di questi pittori potrebbe facilmente essere l’autore del ritratto donato al papa che l’avrebbe poi ceduto a Giovio per la sua collezione. A questa ipotesi manca però un sostegno documentario, in quanto nessun documen­to —le lettere spedite da Dawit, la relazione di Alvares, la descrizione dettagliata del concistoro di Bologna— parlano di un ritratto, e nemmeno Giovio stesso, che pure era presente a Bologna.

In alternativa, il ritratto potrebbe essere stato dipinto in Europa seguendo le indi­cazioni di Alvares o di altri informatori rientrati dall’ Etiopia.

Continuando la nostra passeggiata tra i ritratti degli uomini famosi incon­triamo anche altri personaggi indissolubilmente legati al mondo iberico, e in particolare alla sete di allargare le proprie conoscenze e i confini del mondo co­nosciuto: Cristoforo Colombo, Amerigo Vespucci, Fernando Cortes e Fernando Magellano.

Cosimo de’ Medici ed i suoi consiglieri non sono indifferenti al fascino delle nuove scoperte e benché i promotori indiscussi dei viaggi di esplorazione e con­quista siano a partire dal XV secolo il Regno di Castiglia e il Portogallo si può ben ritrovare il genio fiorentino nell’intuizione che quelle Indie scoperte da Colombo sono in realtà un continente nuovo, fino ad allora neanche immaginato: il nome di America rimanda direttamente a colui che esplorandone le coste meridionali tra il 1499 e il 1502 comprese di essere veramente in un mondo sconosciuto, Amerigo Vespucci.

Il nome della famiglia Vespucci era però legato nella Firenze di fine Quattrocen­to a un altro personaggio, ammirato ed amato: la bellissima Simonetta Cattaneo, moglie di Marco Vespucci, cugino di Amerigo e rappresentante del ramo principale di questa famiglia di ricchi commercianti e banchieri assai vicini ai Medici. Giovane chiamata la sans par per la sua avvenenza, amata platonicamente ma pubblica­mente da Giuliano de’ Medici, morta di tisi a soli 23 anni, rimase il simbolo stesso della bellezza, immortalata da Sandro Botticelli in molti dei suoi capolavori, primo fra tutti La nascita di Venere 7 .


Imagen 6
Cristofano dell’Altissimo, Ritratto di


Imagen 7
Sandro Botticelli, La nascita di Amerigo Vespucci, 1552 ca, olio su tavola, 59,5 Venere, part., 1485 ca tempera su tela, 172,5 x x 44,5, Uffizi 278,5, Uffizi

Un’altra testimonianza di un contatto, seppur del tutto casuale, col mondo por­toghese della seconda metà del XV secolo è la splendida tavola d’altare dei frate­lli Antonio e Piero del Pollaiolo I santi Vincenzo, Jacopo ed Eustacchio, chiamata anche Pala del Cardinale del Portogallo: essa fu realizzata tra il 1466 e il 1468 per la meravigliosa Cappella del Cardinale del Portogallo in San Miniato al Monte, ri­cercato insieme dove lavorarono contemporaneamente i più importanti artisti di Firenze 8 per rendere omaggio al giovanissimo Jacopo di Lusitania, cardinale di Lis­bona, cugino e cognato di Alfonso V di Portogallo. Egli morì a Firenze a soli 25 anni mentre da Roma si recava a Mantova per prendere parte al concilio indetto da Pio II nel tentativo di contrastare l’avanzata dei Turchi dopo la caduta di Costantinopoli. Un passaggio casuale, una breve permanenza, la morte in odore di santità: ancora una volta due mondi e due culture che si incontrano e danno vita a un piccolo ca­polavoro, in cui santi completamente estranei all’ambito fiorentino ma legati alla figura del defunto sono presentati con tutta l’eleganza che la formazione da orafi e l’attenzione all’arte fiamminga che si cominciava a conoscere permette ai due fratelli Pollaiolo.


Imagen 8.
Antonio e Piero del Pollaiolo, Pala del Cardinale del Portogallo, 1466-1468, olio su tavola, 172 x 179, Uffizi

Per concludere questo breve ed incompleto excursus sulle opere degli Uffizi che testimoniano le relazioni sempre intense fra Firenze e il mondo iberico, tornando nel secolo che ha visto la nascita della galleria stessa, non posso non soffermarmi su uno dei più bei ritratti mai eseguiti: quello della splendida e amatissima moglie di Cosimo I, Eleonora di Toledo, col figlio Giovanni, eseguito da Agnolo Bronzino, pittore ufficiale dei duchi Medici, intorno al 1545.


Imagen 9
Agnolo Bronzino, Eleonora di Toledo col figlio Giovanni, 1545 ca, olio su tavola, 115 x 96, Uffizi

Il matrimonio tra il duca ed Eleonora di Toledo, avvenuto nel 1539, fu proposto da Carlo V per rinsaldare maggiormente il rapporto di Firenze, tradizionalmente in passato più vicina alla Francia, con la Spagna e l’Impero al quale Cosimo I doveva la sua rapida ascesa al potere. Legame politico, quindi, ma nel quale la determina­zione del giovane Medici nello scegliere la seconda figlia del viceré di Napoli, e non la prima, meno avvenente e meno intelligente, fu il preludio a un matrimonio felice e fecondo. La bella e giovane spagnola bionda dagli occhi azzurri, educata a Napoli come una principessa, fu un valido sostegno per il marito, anche nelle scelte artisti­che e gli donò ben undici figli. Di questi, alcuni portarono nomi tipicamente medicei, come il primogenito maschio Francesco, Maria, Lucrezia, Giovanni; altri invece in­trodussero a Firenze nomi spagnoli: Garcia e Isabella, come i fratelli di Eleonora, Ferdinando, che diventato Granduca trasmise poi il nome a numerosi discendenti, Pedro come il nonno viceré.

Con la principessa allora diciassettenne giunse a Firenze un ricco seguito appar­tenente alla corte spagnola, che si fermò in città ed al quale fu assegnato un luogo speciale per celebrare le proprie funzioni religiose: la sala del Capitolo del convento di Santa Maria Novella, affrescata nel ‘300 da Andrea di Bonaiuto e da allora chia­mata Cappellone degli Spagnoli.

Con questo nome, che ancora ricorda ai fiorentini il lungo e proficuo rapporto politico, culturale e commerciale col mondo iberico concludo quindi il mio breve excursus sulle tangibili testimonianze che di questo legame ancora conserviamo alla Galleria degli Uffizi.


Imagen 10
Piazza Santa Maria Novella, Firenze

BIBLIOGRAFIA

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Giovio, Paolo, Lettere, ed. Giuseppe Guido Ferrero, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1956.

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Zimmermann, Price, Paolo Giovio. Uno storico e la crisi italiana del XVI secolo, Lec­co, Lampi di stampa/Polyhistor, 2012.

Nota

1. Per le notizie su Paolo Giovio vedere Price Zimmermann, 1985, pp. 9-18; Cochrane, 1985; Price Zimmermann, 2012.

2. Vedere Giovio, 1956, I, p. 92.

3. Per la storia del Musaeum edere Minonzio, 2012, pp. XII-XCVIII.

4. Per quanto riguarda Cristofano dell’Altissimo, vedere Meloni Trukulja, 1985.

5. Per le vicende politiche dei primi anni del governo di Cosimo I de’ Medici e i suoi rapporti con Carlo V, vedere Spini, 1980 pp. 32-150.

6. Vedere Tedeschi, 1985 e Giovio, 2006, pp. 936-940.

7. La tradizione vuole che perfino Botticelli amasse a tal punto Simonetta da farsi seppellire ai suoi piedi. La tomba del pittore è infatti nella cappella Vespucci in Ognissanti.

8. Alla Cappella del Cardinale del Portogallo lavorarono contemporaneamente l’architetto Antonio Manetti, allievo di Brunelleschi, gli scultori Luca della Robbia, Bernardo e Antonio Rossellino, il pittore Alesso Baldovinetti oltre ai fratelli Pollaiolo.

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